Sicilia. Gli ultimi dannati dell’ inferno bianco. Storie delle ultime miniere

C’ erano notti che scivolava fuori da casa verso le tre, prendeva la strada che passa in mezzo alle colline e spariva in un inferno tutto bianco. Giù, sempre più giù a cercare il sale. Non era più un ragazzo Enzo, aveva quasi quarant’ anni, una moglie e due figli. Il suo sogno era quello di fare un giorno l’ autista, guidare un autobus. Intanto scendeva in miniera su una gigantesca pala meccanica a svuotare la montagna. è morto laggiù, sepolto vivo per neanche mille euro al mese. La sua è una di quelle storie di uomini che sembra uscita dal Novecento dei poveri, da un altro secolo. L’ altra notte l’ hanno sentito ancora quel tuono che veniva dalla Scala dei Turchi, i costoni di marna che precipitano in un mare verde. Veniva proprio da quella direzione il rumore cupo della dinamite che brilla in profondità, dalla miniera che sta appena fuori Realmonte, i templi di Agrigento da una parte e il Mediterraneo dall’ altra. «Come quasi ogni notte prima ho avvertito lo scoppio e poi Enzo si è alzato dal letto e se n’ è andato, ma questa volta non è tornato più», ricorda con un soffio la moglie Romina che è già vestita di nero, stretta da cognati, fratelli, zii, cugini, suoceri e nipoti, cinquanta o forse anche settanta parenti nella piccola casa di Porto Empedocle, la famiglia siciliana riunita nel giorno del lutto.

«Portava il pane a casa per Salvatore e per Perla, il maschio ha tredici anni e la femmina solo sette: tutti e due non sanno ancora di loro padre», dice la moglie che ripercorre gli ultimi mesi di esistenza del suo Enzo. Fino allo scorso ottobre andava e veniva da Petralia, un’ altra miniera che è in cima alle Madonie. Tre ore di macchina per arrivarci da Porto Empedocle, tre ore di macchina per tornare a casa. E otto ore al buio là sotto, a strappare sale anche tra quelle montagne. Poi finalmente il lavoro vicino, a Realmonte, quattro chilometri e sette curve dal suo paese. Un sentiero accidentato che attraversa una campagna aspra, minerali di scarto ammassati all’ aria aperta, silos, pozzi, trivelle, nastri trasportatori e poi un buco nero, la bocca della miniera. E’ entrato da lì anche ieri notte Enzo, è salito sulla sua pala ed è sceso giù. Prima a quaranta metri, poi a settanta metri, poi a cento metri e poi ancora più in fondo. A 145 metri sotto il livello del mare. «E poi gli è crollata una montagna addosso», si dispera la vedova. «Cosa è successo, cosa è successo in miniera?», Cosa è accaduto nella miniera di Realmonte l’ altra notte? «Dopo che fanno brillare la dinamite ci sono quelli che chiamano i disgaggiatori e che vanno a ripulire tutto, a staccare quei pezzi di sale ancora incastrati nella montagna», spiega Aldo Mucci, ex dirigente amministrativo della Miniera di Realmonte e anche lui tanti anni passati in miniera. «Ci sono andati anche l’ altra notte o non ci sono mai andati?», si chiede la vedova. Piange. E urla. E grida: «Me l’ hanno ucciso, me l’ hanno ucciso Enzo». Il suo era l’ ultimo lavoro del turno, lui era il “palista”. Prima c’ erano stati i perforatori a bucare la roccia. E poi i “carichini” avevano sistemato l’ esplosivo e il capo mastro l’ aveva fatto brillare. Dopo quelli che sistemavano tutto, toccava a Enzo con la sua grande pala, era lui che doveva prendere il sale. Come ogni notte aveva superato lentamente l’ officina meccanica che è lungo la grande galleria a settecento metri dal buco, dall’ entrata. E poi si era lasciato alle spalle anche la “riservetta” dove custodiscono la dinamite. Era arrivato al bianco, era arrivato al sale quando un fianco è franato e si è sollevata una nuvola di polvere. Enzo è rimasto schiacciato sotto tre tonnellate di massi.

Ci sono i fiori oltre i cancelli chiusi della miniera di salgemma più grande d’ Europa, quasi cinquanta chilometri di tunnel, un labirinto, un giacimento che si estende per tre chilometri verso Porto Empedocle e per altri quattro verso Siculiana, minerale da cavare ancora per almeno mezzo secolo, tra le 500 e le 700 mila tonnellate esportate ogni anno in Spagna e in Austria e in Germania, navi che attraccano agli imbarcaderi agrigentini e vengono riempite di sale. Una produzione record negli ultimi tempi, salgemma che vale molto soprattutto in questo rigido inverno dove nevica tanto nel nord dell’ Italia e nel nord dell’ Europa e dove quel sale viene sparso sulle strade per non farle ghiacciare, sale che è grande business per alcuni e che è ancora sopravvivenza per altri nella Sicilia delle sue ultime miniere. Racconta ancora il segretario della Camera del Lavoro di Realmonte: «Ho sentito che in questi primi mesi del 2006, i 30 operai che lavoravano là sotto facevano straordinari su straordinari per estrarne sempre di più». La magistratura sta indagando, un pubblico ministero vuole scoprire se Enzo è il morto di una disgrazia o il morto di una sicurezza che in fondo alla miniera non c’ è, un morto per qualcosa che forse qualcuno non ha fatto l’ altra notte dopo le mine e dopo il tuono. Non c’ era mai stata una tragedia in questo impianto di Realmonte, aperto 36 anni fa quando sull’ isola il sale e soprattutto lo zolfo sfamavano ancora decine di migliaia di siciliani. Ce n’ erano più di cinquecento tra piccole e grandi di “pirrere”, come i siciliani delle province interne chiamavano le loro zolfare. Ed erano quasi tutte da queste parti, sotto i paesi tra Agrigento e Caltanissetta ed Enna, il cuore dell’ isola. Sopra c’ era il feudo e sotto le miniere, i campieri della mafia c’ erano su e anche giù, trattavano gli uomini come bestie, salari da fame, la vergogna dei “carusi”, bambini di 8 o di 9 anni che lavoravano chini nelle gallerie anche per quindici ore al giorno e per sette gioni la settimana. Michele Felice era uno di quei “carusi”. Morì schiacciato anche lui, nel ’51. Il padrone tolse dalla sua paga consegnata al padre l’ ultima ora di lavoro: l’ ora in cui era morto. «Certo non è più come una volta, ma qualcuno dovrebbe indagare meglio su cosa succede anche nella miniera di Realmonte con le cooperative dei padronicini e con quelle che fanno lavorare i palisti», dice Francesco, il fratello di Enzo. E la vedova: «Quando Enzo trasportava il sale con un camion, se si rompeva il camion era lui che doveva pagarselo». Lavoro nero nell’ inferno bianco. Storie delle ultime miniere siciliane.

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